Recensione Mariangela Giusti
Il libro di Janek Gorczyca è una lunga autobiografia raccontata. Conserva le caratteristiche tipiche dei racconti trasmessi a voce: l’immediatezza, l’emotività, l’accavallarsi dei concetti. Accade infatti, che, quando raccontiamo a qualcuno una serie di vicende che ci riguardano e ci coinvolgono, le idee, le immagini, i ricordi, le sensazioni è come arrivassero tutti insieme alla memoria e creano letteralmente un fiume di parole. Il libro di Gorczyca ha questa stessa caratteristica: è un racconto di vita raccolto direttamente dalla viva voce del protagonista. Janek è un cittadino nato e vissuto in un piccolo paese della Polonia, che, in seguito a varie disavventure di tipo sociale, politico e familiare, circa trent’anni fa si trovò nella condizione di dover abbandonare il suo Paese e di emigrare. Iniziarono i suoi viaggi senza meta: prima restò a Vienna per qualche tempo, poi si traferì a Danzica e in seguito si spostò in Germania, ad Amburgo. Il suo progetto migratorio era di dirigersi in Finlandia e di stabilirsi là, ma si fece convincere da un amico ad andare in Italia e in particolare a Roma, dove da allora ha sempre vissuto. Per certi versi, la sua vicenda di vita è simile a quella di tanti immigrati, le cui testimonianze orali sono spesso raccolte dalle ricerche etnografiche sul campo condotte da sociologi o pedagogisti. Per altri versi invece la sua è una storia originale perché è caratterizzata da un’intenzionalità non comune, legata a una forte volontà di vivere, di farcela e di andare avanti.
Più d’una volta, nel corso del suo racconto, il protagonista ripete che ha sempre fatto (e fa) una vita di strada, senza fissa dimora, e che è abituato a “occupare” abitazioni vuote e dismesse, sempre circondato da persone più o meno amiche che condividono la sua stessa vita, con i rischi e i pericoli che ciò comporta.
E così, pagina dopo pagina, il libro fa entrare il lettore a contatto con un mondo poco noto di persone senza casa e senza documenti; un mondo dove donne e uomini adulti vivono di espedienti e cercano di fare i mestieri più diversi, spesso con l’abitudine all’alcool. A differenza di tanti amici e compagni di strada (senza nessun lavoro e sempre senza soldi) il protagonista ha un mestiere: lui è un fabbro ed è anche molto bravo. Svolge bene il suo lavoro e ciò gli consente di avere tante richieste: costruisce recinsioni in ferro per giardini, grandi cancelli e ringhiere per terrazzi. Questa abilità di artigiano è un po’ come una chiave universale che gli apre tutte le porte: l’officina del suo datore di lavoro – Gino- è il luogo sicuro dove sa di poter trovare sempre una risposta alle sue difficoltà e ai suoi problemi. Gino è la persona che lo capisce, lo asseconda nelle sue necessità, lo accompagna con la macchina, gli anticipa i soldi se Janek gli dice di averne bisogno.
In Storia di mia vita Gino è una figura ricorrente e positiva: assurge a emblema dei tanti italiani e delle tante italiane che aiutano gli immigrati nella normalità della vita di tutti i giorni dando una mano, mettendosi a disposizione, aiutando nei modi più diversi. Ma nel libro compaiono molte altre figure positive. Sono rammentati più volte gli educatori di Comunità, che si preoccupano di aiutare gli immigrati senza fissa dimora nei luoghi strani dove essi vivono: compaiono nelle circostanze più diverse, come degli angeli silenziosi e offrono il loro aiuto sul piano educativo (per la ricerca di un lavoro), oppure per risolvere problemi legati alla salute fisica e mentale o alla ricerca di un’abitazione dove vivere. Inoltre, l’autore più volte nel libro fa riferimento a vari ospedali di Roma dove lui stesso, la sua compagna Marta e altri amici vengono ricoverati per varie malattie: il Policlinico “Gemelli”, l’Ospedale “Sandro Pertini”, il “Cristo Re” e altri. Ovunque, il personale ospedaliero è raccontato come molto professionale, comprensivo, altruista, dedito al proprio lavoro: dal professore primario che opera Marta, agli infermieri e ai medici dei vari pronto soccorso presso i quali Janek si trova costretto a rivolgersi per necessità gravi di vario tipo: il cuore, l’alcolismo, problemi psichiatrici.
Il racconto di Janek, come si è detto, è autobiografico, ma descrive anche la vita di una grande metropoli dei giorni nostri dove letteralmente convivono mondi diversi: il mondo dei cittadini con un lavoro tradizionale e riconosciuto (i fabbri Gino e Maurizio, gli abitanti romani del quartiere, i poliziotti, i carabinieri, i medici, gli infermieri, gli educatori); a fianco di questo c’è il popolo dei turisti che vive la grande città in modo temporaneo e superficiale; infine c’è il popolo degli invisibili, dei quali non si conosce quasi nulla e dei quali questo libro racconta le storie, i momenti di felicità, le cadute e i drammi.