Recensione di Elena Parenti
Il macaco è un simpatico primate, e Macaco è, nel libro omonimo di Simone Torino, un soprannome, così come Bestemmia, Zitto e Macchio. Quello di Macaco e dei suoi amici è un microcosmo montanaro: giovani valdostani che conducono una vita semplice, semplice e lenta, ma anche pesante, soprattutto quando devono zappare la terra per piantare le patate. Quello fanno di lavoro, passano da un proprietario all’altro, continuano a lavorare, ma Macaco afferma: “tra noi, non dovrebbero esserci capi. Né capri”.
Torino nei ringraziamenti specifica: “Questi personaggi non esistono. I personaggi non sono persone e le persone non sono personaggi. E io non sono Macaco. Purtroppo.” Questo romanzo si inserisce in quella che possiamo definire letteratura del lavoro e racconta, in prima persona, le vicende quotidiane di Macaco - il protagonista - e dei suoi colleghi e amici, con uno stile scarno e pulito che rispecchia le asperità e la purezza della terra. Terra che braccianti agricoli, come Macaco e compagni, rivoltano con fatica, ma anche con grande rispetto e soddisfazione.
Questi ragazzi conoscono la dignità che conferisce loro il lavoro e riescono a godere, fino in fondo, delle giornate libere, durante le quali ammazzano il tempo divertendosi. Praticano sport e frequentano locali di provincia, dove si respira l’aria genuina di un tempo che oggi ci appare sempre più perduto. “L’aria di vetro” di Eugenio Montale, di cui Macchio (l’anima intellettuale del gruppo), parla a Macaco. Lui legge affascinato la poesia: “Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo” e se ne appropria, la respira e vi trova la felicità.
La piccola realtà che Torino racconta sembra, di primo acchito, non lasciare spazio al “miracolo” montaliano ma, mano a mano che va avanti, il lettore coglie l’epifania che risiede proprio tra i buchi scavati per le patate, tra le carezze per i gatti, tra le sedie di un pub per sordi.
Lo scrittore aostano tratta il tema della presunta incomunicabilità tra sordi e non sordi con delicatezza e il lettore ‘vede’ i personaggi mentre ‘segnano’ le parole con il linguaggio dei segni e si danno altri nomi: i ‘segno nome’. Così, il punto di vista viene ribaltato: a sentirsi esclusi non sono i sordi, bensì i non sordi che imparano la LIS per essere inclusi in quel mondo silenzioso.
L’autore riesce a trattare tematiche importanti e quantomai attuali con estrema naturalezza e grande sensibilità: la diversità, l’inclusione, la solidarietà, il suicidio, l’amore, la pietà, la violenza del presente e della Storia del passato. Niente e nessuno viene giudicato, è la narrazione nuda e cruda che tira i fili di tutto. Tutto trova un suo spazio naturale tra le pagine di questo romanzo: il tocco leggero che Torino usa, non disdegnando una giusta dose di ironia, ci suggerisce di riflettere, ma ci lascia liberi di pensare, senza indicarci, per forza, la via della ‘verità’.