Recensione del libro: I Giorni di Vetro Premio Letterario Pozzale Luigi Russo

Nicoletta Verna
I Giorni di Vetro Einaudi 2024



Recensione di Cristina Preti

Il romanzo di Nicoletta Verna inserisce in un quadro di realtà storica le vicende di una serie di personaggi di fantasia; l’avvio del racconto data dalla nascita di una delle voci narranti, Redenta, venuta al mondo nello stesso giorno del delitto Matteotti, e prosegue seguendo la parabola del fascismo, dall’ascesa fino agli anni della seconda guerra mondiale, all’armistizio dell’ 8 settembre 1943, alla Repubblica di Salò, alla Resistenza, alla fine della guerra.
Il tutto viene evocato attraverso le ripercussioni concrete che gli eventi storici hanno sulla vita dei protagonisti del romanzo.
Redenta abita il mondo semplice e rurale della provincia romagnola, più precisamente di Castrocaro Terme, dove una umanità modesta e vulnerabile si arrabatta per avere la meglio sulla miseria e sopravvivere dignitosamente. In questa realtà rustica e schiva, ritratta con grande efficacia anche grazie all’uso di vivaci espressioni dialettali, l’autrice fa muovere una galleria di personaggi memorabili, a partire da Redenta stessa. Essa è figlia di un reduce dalla campagna d’Etiopia, venuta alla luce dopo tre fratellini nati morti, i quali, come spiritelli, l’accompagneranno per tutta la vita in quella sorta di “dimensione parallela” che combina elementi di credulità, superstizione e magia in cui Redenta è immersa fin dalle circostanze del suo concepimento. La poliomelite la rende zoppa e di conseguenza è guardata con commiserazione dalla comunità, ma nonostante questo essa non perde la sua indole gentile, dolce e caritatevole.
Tra le figure che le si muovono accanto spicca sicuramente quella della nonna Fafina, presenza ruvida ma protettiva, “la più intelligente di Castrocaro, più del Sindaco e persino più del prete”, l’infermiera del paese che si occupa con dedizione dei “bastardi”, bambini abbandonati o nati fuori dal matrimonio che le vengono affidati. Tra di loro Bruno si distingue per la sua dolcezza ritrosa e per il legame speciale che instaura con Redenta, fatto di complicità silenziosa e reciproco conforto, in un mondo che non fa sconti a nessuno.
Un ruolo di primo piano in tutta la storia è svolto da Vetro, il gerarca al quale Redenta va in moglie proprio in virtù della sua menomazione e della sua remissività, che agli occhi del sadico fascista la rendono soggetto ideale da sottomettere e tiranneggiare senza pietà.
Anche la seconda voce narrante del romanzo è quella di una donna, però completamente diversa da Redenta: Iris, figlia della maestra di Tavolicci, località dell’Appennino forlivese che diventerà tristemente celebre per uno degli innumerevoli efferati eccidi compiuti dai nazifascisti nell’estate del 1944. Ma quando Iris fa la sua comparsa nel romanzo, quell’evento è ancora lontano. La ragazza aiuta la madre nelle attività scolastiche, poi decide di lasciare il paesello per trasferirsi a Forlì e andare a servizio presso una famiglia dell’alta borghesia cittadina. I suoi datori di lavoro sono oppositori del regime, e ben presto Iris si unisce alle loro attività clandestine, collaborando fianco a fianco con un altro lavoratore della casa, Diaz, che diventerà in seguito il comandante della brigata partigiana che da lui prenderà il nome.
Le storie di Redenta e Iris si intersecano in modo imprevedibile, in un crescendo drammatico così come drammatiche sono le vicende di quegli anni terribili. La narrazione, condotta con indubbia abilità, procede mantenendo alta la tensione e l’attenzione del lettore fino all’epilogo, doloroso ma non privo di una luce di speranza.
Oltre alla capacità narrativa dell’autrice, colpisce in questo romanzo il messaggio affidato alle figure femminili: donne a noi vicine, nonne e madri del nostro tempo, cresciute in una cultura profondamente maschilista e patriarcale a cui hanno cercato di resistere e di opporsi, riuscendo, nonostante tutto, a vivere secondo un loro proprio codice improntato allo spirito di assistenza, di aiuto, di cura dell’altro.
Le figure maschili, viceversa, appaiono per lo più tossiche, dominate da un insopprimibile bisogno di controllo e sostanzialmente incapaci di amare davvero.
È soprattutto attraverso di loro che la violenza, fisica e simbolica, agisce come motore della narrazione: è la forza che muove la Storia e che caratterizza anche i rapporti tra le persone, rapporti di prevaricazione e prepotenza. A questa violenza si contrappone una forma profonda di carità, di pietas — una solidarietà femminile che, pur non riuscendo sempre a salvare, consola, ripara, accoglie.
“I giorni di Vetro” si impone come romanzo che parla di fratture e di resistenza. Di ciò che soffre e si spezza — i corpi, i legami, le illusioni — ma anche di ciò che, nonostante tutto, resta integro: la forza delle donne, la memoria, il desiderio ostinato di continuare a credere fermamente che il male non prevarrà.