Recensione del libro: Sulla faccia della terra Premio Letterario Pozzale Luigi Russo

Giulio Angioni
Sulla faccia della terra Il Maestrale; Feltrinelli 2015



“Noi potremmo essere tutti uguali, maschi e femmine, vecchi e giovani, più o meno sani, forti, sapienti, sardi, alemanni ebrei e così via”
Dai disastri della guerra tra pisani e genovesi in terra sarda, nel 1258, pochi sopravvissuti al massacro di Santa Gia si vengono a trovare, in fuga, nell'isola dei lebbrosi.
Superate le prime diffidenze, decidono di unire ciascuno le proprie conoscenze e abilità a vantaggio di questa bizzarra, eterogenea, comunità che si sta formando, fatta di uomini e donne, liberi e servi, provenienti da culture diverse e lontane, arrivati nell'Isola di Sardegna per commerciare o come merce di scambio essi stessi, schiavi al servizio dei dominanti,
invasori o sottomessi, guerrieri, laici o ecclesiastici.
Mentre al sostentamento si provvede con la sagacia e le abilità acquisite dai mestieri o dalle tradizioni culturali da ciascuno conosciute, viene a formasi un nuovo senso di comunità, sorretto dal desiderio di vivere in pace, in consapevole contrapposizione con tutto ciò che provoca le guerre o le alimenta, ispirandosi ad un'uguaglianza che, pur riconosciuta come utopistica, viene tradotta in pratica quotidianamente, sotto l'impulso della necessità.
Una importante decisione avviene su impulso di un anziano saggio ebreo, conoscitore delle Scritture, di molte lingue e dell'arte della seta: ciascuno, a turno, dovrà raccontarsi, ricordando e condividendo la memoria della propria storia, anche se dolorosa e aspra: “Proviamo a raccontarci, per conoscerci un po'. E a quello che facciamo qui forse gli
diamo un senso, se ci raccontiamo”.
Il racconto degli scampati alla distruzione delle armi, sull'isola dei lebbrosi è autobiografico e non ha niente di fantastico, se non nella suggestione che provoca la provenienza “esotica” di coloro che sono stati sottratti al loro ambiente natio. Tra loro c'è Aki, che parla farsì dell'altopiano iranico, compatriota della più grande narratrice al mondo, Shehrazade; ma c'è anche il sardo Paulinu, servo allo scrittoio di santa Maria di Clusi, sottratto alla famiglia per essere mandato a servizio dai frati del convento, dove però furtivamente, è riuscito ad imparare a leggere, guadagnandosi la capacità di aspirare alla libertà e di pensarsi libero, in una dimensione di uguaglianza tra gli uomini. Una capacità che non può tuttavia mettere al riparo dalla diffidenza e dall'ostilità di coloro che preservano l'ordine costituito, di fronte a cui nulla può valere neppure aver salvato la vita ad un alto ecclesiastico.
Un'altra importante decisione sarà quella di mettere per iscritto, conservare in un libro, speciale, la memoria di ciò che è stato detto, raccontato, vissuto.
Il bisogno di dire e di tramandare, lasciando traccia della propria esperienza risponde ad una necessità che attiene alla sfera del rito e della sacralità; non a caso l'autore del romanzo, l'antropologo Angioni, ne lascia lievitare i presupposti in corrispondenza del momento funebre forte, determinatosi con la morte del saggio ebreo Baruch, che crea
vuoto e dolore nella comunità.
Il luogo dove gli scampati s'incontrano e si stringono in un consorzio di solidarietà, l'isola dei lebbrosi, solitamente schivato dai sani e quindi più sicuro anche se povero, diventa un laboratorio dove si sperimenta un'utopia. Come tale, per la sua carica intimamente eversiva nei confronti dell'ordine costituito, sarà inevitabilmente osteggiata dalle autorità
dominanti sulla terraferma, che non concepiscono infrazioni allo stato delle cose, tacciando di eresia l'uguaglianza tra le differenze. (recensione a cura del Comitato Organizzatore)



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