Recensione del libro: Romanzi, cronache e racconti Premio Letterario Pozzale Luigi Russo

Gianni Celati
Romanzi, cronache e racconti Mondadori, 2016



“Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita”



Nella prestigiosa collana dei “Meridiani” viene raccolta, per le cure di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, parte della produzione di Celati, quella che si può inquadrare a vario titolo nella “narrativa”: donde l’adeguato titolo tripartito. Resta fuori la saggistica, che in lui è sempre di livello eccellente, e dialoga con l’attività narrativa, dando luogo a illuminazioni reciproche.
E’ difficile immaginare uno scrittore più di Celati distante dall’effetto “monumentalizzazione” che spesso una collana come questa produce; ma gli anticorpi sono là, ad apertura di pagina, e attestano anche di una mutazione nel concetto di “classico”.
In Celati, chi scrive non vale più di chiunque altro; la qualità della letteratura va ricercata nella sua energia, vitalità, dissipazione.
I personaggi di Celati camminano, procedono alla deriva, si affidano allo smarrimento, non suggeriscono mai che l’esperienza che raccontano sia privilegiata. E’ difficile anche fare esperienza di ciò che si narra qui: manca una direzione che non sia quella fluida delle acque “verso la foce”, titolo di una delle prove più belle e spiazzanti. Sfogliando e ripercorrendo queste prove, dalle “Comiche” del 1971 ai recentissimi “Costumi degli italiani” di quasi mezzo secolo dopo, si scopre come possa essere rischioso istituire un percorso, da un primo Celati consapevole dell’impoverimento dell’esperienza e alla scoperta del mondo come bagarre a un secondo Celati capace di prenderne atto e di affidarsi all’affabulazione del sentito dire, a una lingua che abbandona l’ultima pretesa da letterato rimasta, e invece di farsi interpretazione del mondo si riduce al parlato per secoli escluso dalla tradizione letteraria italiana; aprendo peraltro la possibilità di esprimersi a una nuova generazione di narratori, che stanno perlustrando la grammatica di questa oralità, nelle sue varie manifestazioni locali e in coiné storicamente costruite fuori dal circolo letterario.
Ma forse in tutte e due i casi (o le fasi) Celati stava cercando di liberarsi dalla prepotenza di un soggetto che dà senso e ordine al mondo, e affidarsi a una voce narrante che non abbia a che fare con la coscienza e la ragione di cui parlava (male) Leopardi, ma con la vita.
Come in una novella medievale di un intellettuale ebreo vissuto nella Spagna araba, ma ripresa da fonti illustri e poi insinuatasi nelle novella del Decameron più squisitamente metanarrativa, si raccontano storie perché si è in cammino, e privi di una cavalcatura; il racconto sarà il cavallo che ci porterà, alleviando il viaggio, non importa in che direzione: basterà affidarsi a lui e alla metrica del suo passo, come ci si affida non a un discorso, ma a una voce.
Ci sarà una foce, c’è sempre, e sarà là e allora che l’attività di osservazione concluderà la sua deriva e approderà a uno smarrimento finale con cui Celati dà l’impressione di star facendo i conti da sempre. (recensione a cura del Comitato Organizzatore)



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